LA FORESTA FOSSILE (2a parte)
La
felicità: spesso creature di ogni mondo si chiedono in cosa consiste. Per me
era trovarmi in vita ancora con lei, ancora una volta. Ancora, dopo aver
sperimentato una lenta agonia e la morte. L’aver vissuto quel declino ed il suo
epilogo mi aveva chiarito, semmai ce ne fosse stato bisogno, il senso di una
vita. Avevo ascoltato le sue parole al mio “risveglio”: Quanto tempo da recuperare!
Ora, forse, avevamo una possibilità di viverci, di confrontarci di comprendere
il significato della nostra essenza, del nostro trovarsi. Così ha detto il
Sommo: “vi siete trovati”.
Non
ero più il suo Osservatore, mi muovevo tra i resti di quelle conifere terrestri
come un suo pari e questo non mi dispiaceva affatto. Ero libero dai ruoli: più
nessuna subordinazione, finalmente solo e semplicemente io e lei e nient’altro.
Le nostre anime si intrecciavano in terra come in cielo: lo facevano come
sempre, forse come prima del nostro primo incontro a Primordia, quando capii
che sarebbe stata nel mio destino.
Il
pugnale: Il Sommo ne aveva fatto riferimento come compito primario da anteporre
alla ricerca del Cerchio Celtico: avremmo capito poi la sua funzione. Ed il
portale nel Cerchio. Nel mio permanere in quelle terre avevo sentito parlare di
un antico cerchio di pietra sulla sommità di un monte: l’area era considerata
magica.
Il
Sommo, prima di congedarci, ci aveva informato sulla necessità di varcarlo al
momento giusto dell’anno: si trattava della notte di Luna piena precedente a
quella del nostro “prelievo” dalla luce, quella dove, in quel momento, un altro
me correva con dei lupi al seguito in quelle stesse aree.
Mi
venne in mente di aver visto un graffito celtico nell’architrave di
un’abitazione della zona: un grande cerchio rubava la scena su di uno sfondo
stellato, dove compariva il Grande Carro insieme ad un uomo alla sua sinistra.
D’improvviso mi fu chiaro che era stata tracciata la mappa stellare della notte
in cui il varco era aperto. Capita di guardare senza i giusti strumenti per
interpretare quel che si vede.
Lasciai
che fosse lei a prendere l’iniziativa della caccia al pugnale: la sua mente era
proiettata, come sempre, alla missione affidataci con la giusta efficienza.
Eppure ci sarebbe stato un momento in cui, per proseguire nel nostro cammino,
avremmo dovuto abbandonare quella fredda razionalità d’azione, per dare spazio
alla parte più vera, interiore ed intima di noi. Mi domandavo se fosse pronta,
se volesse condividere con me questo al di là delle parole che aveva
pronunciate.
La
osservavo agire e la guardavo come fosse stata la cosa più bella che avessi mai
visto in qualsiasi mondo: per me era così…
Il pugnale ci aveva indicato la cima del monte più
vicino. Arrivati alla sommità un cerchio di pietre a secco, del diametro di
circa novanta metri, si presentava ai nostri occhi sotto la luce lunare. Alcune
grandi querce cresciute al suo interno ne adombravano una parte. Al suo centro
era presente una depressione quadrata: in quel punto doveva ergersi, in
passato, un’ara per i sacrifici propiziatori. La presi per mano e corsi con lei
in quel punto focale proprio mentre degli ululati si alzavano al cielo e fu
come essere sbalzati tra le stelle, per poi rivedere quegli stessi astri dal
centro di quell’antico tempio, la nostra meta: ce l’avevamo fatta!
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